Pagliara gioca con la nostra storia

Difficile da seguire ma intrigante certo nell’intricarsi dei mille sentieri percorsi dai suoi cento personaggi, questa verisimile storia sospesa tra sogno/romanzo e realtà/cronaca scuote a fondo la fantasia e l’attenzione del lettore – chi sappia farsi attento e non subisca soltanto l’affascinante lusinga della fantasia.
Uomo del Rinascimento (pubblicato dall’editore Book) è un lavoro composito e dichiaratamente apocrifo… per comprenderne le intime ragioni narrative si dovrebbe forse parafrasare Svevo: “è una autobiografia ma non la mia” – così infatti appare la vicenda del protagonista G, maschera nemmeno tanto nascosta dell’autore Giuseppe Pagliara, proiettata in un secolo remoto ma come a volersene plasmare per meglio illuminarsi nello studio del suo secolo, delle odierne macchinazioni politiche (forse con la speranza di meglio capirne o carpirne le apparentemente insensate logiche)! Si può avere qualche dubbio in proposito soltanto all’inizio, mentre si cerca di ricomporre il puzzle degli episodi nel tempo e nello spazio – e siamo ad Urbino e dintorni fra il 12 e il 27 giugno del 1502 (è precisato nel frontespizio, a scanso di equivoci) -; ma basta arrivare a pagina 107, a un quarto del libro, e ci si trova di fronte allo specchio: “ad angustiare l’uomo di pensiero è il disprezzo del potente e la meschinità dello sgherro, accomunati da invidiosa ignoranza. Tu chiedi libertà di agire, e ti appongono canoni, norme e dogmi montati da mediocri e repressi. Tu chiedi scuole da capaci e meritevoli e ti rifilano ciarpame dirigente, docente e discente…”.
Eccoci qui, eccoci noi, noi di oggi: inequivocabile ormai non più soltanto l’allusione ma la denuncia di un malcostume; ed ecco allora anche chiarita la figura ambiguamente presentata come anonima in copertina (ma sotto, proprio sotto a quella, vi è scritto il nome dell’autore del libro!): è Giuseppe Pagliara che si è proiettato nel Rinascimento, in un torbido momento storico al quale ha dato l’incarico di raffigurare il nostro momento, inquieto inquietante, del quale vorrebbe fare scempio, ma si trattiene con disdegnoso distacco, appunto come è solito atteggiarsi il personaggio G.
L’insistita esuberanza delle citazioni, classiche e non, incastonate nel linguaggio volutamente ricalcato su modelli riconoscibili, rende comunque scoperto il gioco: rapidamente si assiste ad una parata di nomi assunti come maestri o testimoni – e le parole di quelli servono a rafforzare l’idea che quanto si va dipanando nella storia che leggiamo è degno di attenta considerazione. Ma infine è l’atmosfera generale che si gonfia di parole, e si stempera nelle parole… I fatti sono squallidi o disdicevoli, ambigui o ridondanti, le azioni dei personaggi appaiono di volta in volta misurate a interessi narrativi che puntano ad un interesse superiore: dimostrare quanto marcio vi sia sempre in ogni Danimarca che si rispetti!
Il vero per soggetto, d’altronde, lo consigliava qualcuno che se ne intendeva, di romanzi storici, ma poi ci faceva la cucina che gli piaceva, che gli serviva… cercava l’utile. Così Pagliara scende (e l’aveva già fatto nella gialla invenzione ‘pompeiana’ di qualche anno fa) a cercare nel passato chiavi di lettura psicologica e sociale di una umanità che sembra quasi goda ad attorcigliarsi sulla propria coda… ma non è un gatto, e dovrebbe invece scattare in avanti facendo tesoro del passato. Così Uomo del Rinascimento è un godibile affresco verisimile nella finzione narrativa poiché possiamo riconoscere (molto più di quanto avveniva nel Giallo pompeiano) i veri protagonisti della storia, i politici del tempo che si pascevano dei loro simili come fossero stuzzichini a merenda. Ma è insieme una sventola sonora sulla nostra coscienza di lettori, di uomini del nostro tempo.

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